02/07/17

Perché poi la vita, è come un TOM - TOM. Vedi la faccenda di Gigino.

La vita è come un Tom Tom, il navigatore. Tu imposti la destinazione, segui la strada corretta, se la sbagli c'è il " ricalcolo ", e sta a te se seguire il " ricalcolo " o meno ( cit. più o meno, di Giorgio Vittadini ). 

Eh, Gigino potrebbe essere benissimo il narratore. Colui a cui dicono " dovresti fare o non fare ", oppure " dovresti comportarti cosi o non cosi ", ma vedete, uno fa o si comporta a seconda di come gli aggrada la faccenda. 

Davide Boldrin


GIGINO. Di Giovannino Guareschi
Gigino si sentì addosso gli occhi della madre e delle due sorelle, ma non alzò la testa dal piatto. La cameriera tornò in cucina e la signora ripeté:«E allora?».«Ho parlato con tutti i professori e col preside» spiegò il padre. «Hanno detto che va ancora peggio dell’anno scorso.» Gigino aveva quattordici anni ed era in seconda media:ripetente della seconda media, dopo aver fatto per due anni la prima.«Mascalzone!» disse la signora rivolta verso Gigino.«Lezioni private di latino, lezioni di matematica, soldi, sacri-fici!» A Gigino vennero le lacrime agli occhi. La signora si protese sopra la tavola, agguantò Gigino per i capelli e gli sollevò il viso. «Mascalzone!» ripetè. Si sentì ciabattare la cameriera e la signora si ricompose. Quando la ragazza se ne fu andata, la signora si rivolse al marito:«Ma cosa fa? Che mascalzonate combina?». «Niente» spiegò il padre allargando le braccia. «Come condotta è a posto e nessuno si lamenta. Quando lo interrogano non risponde, quando fa i compiti in classe non riesce ascrivere una parola che non sia una bestialità. I professori non me lo hanno detto ma mi hanno fatto capire che per loro è un cretino.»«Non è un cretino!» gridò la signora. «È un vigliacco!Ma è ora di finirla: bisogna trovare il modo di farlo studiare. Sono pronta a sopportare tutti i sacrifici dell’universo, ma deve andare in collegio.»Le due sorelle guardarono Gigino con disprezzo.«Per causa sua poi ne dobbiamo soffrire noi!» esclamò la maggiore che era già all’università.«Dobbiamo soffrirne noi che non ne abbiamo nessuna colpa» aggiunse l’altra che era una delle brave del liceo.«Ne soffriamo tutti» disse il padre. «Quando in una fa-miglia c’è una disgrazia pesa su tutti. A ogni modo, a costo di scannarmi, lo metterò in collegio.»Gigino era un ragazzo timido, di quelli che parlano poco: ma quella volta la disperazione lo prese e parlò.«Non voglio più studiare!» disse. «Voglio fare il mecca-nico!»La signora scattò in piedi e diede uno schiaffo a Gigino. «Voglio fare il meccanico!» ripetè Gigino. Il padre intervenne:«Calmati, Maria. Non bisogna far scenate. Lascialo dire:andrà in collegio e là troveranno il modo di farlo studiare». «Non voglio più studiare!» insistette Gigino. «Voglio fare il meccanico.»«Vattene nella tua stanza!» disse il padre. Gigino se ne andò e il consesso riprese la discussione.«È più che mai necessario chiuderlo in collegio» affermò la signora. «Oramai si ribella e qui succederebbero scenate d’inferno.» «Provvedere subito» assicurò il padre. «Oggi sono riuscito a mantenermi calmo, ma in seguito non so se ci riusci-rei più.»«È un ragazzo che ci farà rodere il fegato a tutti» disse la signora. «D’altra parte non possiamo permettere che, a forza di ripetere le classi, diventi la favola della città. Quando si ha un decoro bisogna mantenerlo a ogni costo.»«Certamente» approvò il padre. «Il figlio del nostro usciere che ha fatto la prima media con Gigino è già due classi più avanti di lui.»La signora ebbe una crisi di pianto e le due ragazze guardarono con aria di rimprovero il padre. Non c’era nessuna necessità, perbacco, di dire una cosa simile. Ma il padre aveva da tanto quella cosa lì, sullo stoma-co, e doveva ben dirla.
*
Gigino arrivò con la corriera delle sei del pomeriggio. Gironzolò per il paese e subito venne sera. Incominciò a piovigginare e il ragazzo si riparò sotto il porticato in fondo alla piazzetta. Guardò le vetrine delle tre o quattro bottegucce.Aveva ancora in tasca duecento lire e avrebbe voluto entrare nel caffè per bere una tazza di latte, ma non trovava il coraggio di farlo. Traversò la piazza e andò a rifugiarsi nella chiesa. Si mise nell’angolo più nascosto e, verso le dieci,quando don Camillo andò a dar la buona notte al Cristo dell’’altar maggiore, trovò Gigino addormentato su una panca. Il ragazzo, svegliato d’improvviso dall’urlaccio di don Camillo, vedendosi davanti quell’omaccio nero che pareva ancora più colossale nella penombra della chiesa, sbarrò gli occhi.«Cosa fai qui?» domandò don Camillo.«Scusi signore» balbettò il ragazzo. «Mi sono addormentato senza volere.»«Ma che signore!» borbottò don Camillo. «Non vedi che sono un prete?»«Scusi, reverendo» mormorò il ragazzo «vado via subito.»Don Camillo vide quei due grandi occhi pieni di lacrime e agguantò per una spalla Gigino che già s’era avviato verso la porta.«E dove vai?» domandò.«Non lo so» rispose Gigino.Don Camillo cavò fuori dall’ombra il ragazzo, lo spinse davanti all’altar maggiore dove c’era luce, e lo squadrò attentamente. «Oh, un signorino» disse alla fine. «Vieni dalla città?» «Sì.»«Vieni dalla città e non sai dove vai. Hai del danaro?» «Sì» rispose il ragazzo mostrando i due biglietti da cen-to lire. Don Camillo si avviò verso la porta rimorchiandosi Gigino. Quando furono arrivati in canonica, don Camillo prese tabarro e cappello:«Seguimi» disse brusco. «Andiamo a sentire cosa pensa di questa storia il maresciallo.» Gigino lo guardò sbalordito.«Non ho fatto niente» balbettò.«E allora perché sei qui?» urlò don Camillo.Il ragazzo abbassò la testa.«Sono scappato da casa» spiegò.«Scappato. E per qual ragione?»«Vogliono per forza farmi studiare, ma io non capisco niente. Io voglio fare il meccanico.»«Il meccanico?»«Sì, signore. Tanti fanno il meccanico e sono contenti. Perché non posso essere contento anch’io?»Don Camillo riappese all’attaccapanni il tabarro. La tavola era ancora apparecchiata. Don Camillo frugò nella credenza e trovò un po’ di formaggio e un pezzettino di carne. Poi si mise a sedere e stette a guardarsi come uno spettacolo Gigino che mangiava secondo tutte le regole della buona creanza.«Il meccanico vuoi fare?» domandò a un certo punto.«Sì, signore.»Don Camillo si mise a ridere e il ragazzo arrossì. Il letto dell’ospite era sempre pronto, al primo piano, e così non fu difficile sistemare il ragazzo. Prima di lasciarlo solo nella stanza, don Camillo gli buttò sul letto il suo tabarro.«Qui non ci sono i termosifoni» spiegò. «Qui fa freddo sul serio.»Prima di addormentarsi, don Camillo si rigirò nel letto parecchio.«Il meccanico» borbottava. «Vuole fare il meccanico!»
*
La mattina don Camillo si alzò come il solito che era ancor buio, per la prima Messa: ma stavolta si studiò di non fare baccano per non svegliare il signorino che dormiva nella stanzetta vicina. E, prima di scendere, aperse cautamente la porta per controllare se tutto funzionava bene nella camera dell’ospite. E trovò il letto rifatto alla perfezione e Gigino seduto nella sedia ai piedi del letto. La cosa lo lasciò sbalordito.«Perché non dormi, tu?» disse di malumore.
«Ho già dormito.»Quella mattina pioveva e faceva un freddo infame e così l’unico ad ascoltare la Messa di don Camillo era Gigino. E don Camillo fece anche il suo bravo sermoncino e parlò dei doveri dei figli, e del rispetto che i figli debbono avere per la volontà dei genitori, e fu uno dei discorsi nei quali mise maggiore impegno. E il povero Gigino, solo e sperduto nella chiesa semibuia e deserta dove la voce tonante del colossale sacerdote rimbombava e ingigantiva, sentendosi dire «voi ragazzi», aveva l’idea di essere responsabile, davanti a Dio, dei peccati di tutti i ragazzi dell’universo.
*
«Nome, cognome, paternità, luogo e data di nascita, luogo di residenza e numero del telefono!» ordinò don Camillo a Gigino quando ebbero consumata la colazione. Il ragazzo lo guardò impaurito poi disse tutto quello che doveva dire e don Camillo andò al posto pubblico a telefonare. Gli rispose la signora.«Vostro figlio è mio ospite. Non datevi pensiero perché qui è al sicuro da ogni pericolo» spiegò don Camillo dopo essersi qualificato. Poi sopraggiunse il padre e don Camillo rassicurò anche lui e gli diede un consiglio: il ragazzo era un po’ scosso. Si rendeva conto del male che aveva fatto ed era pentito sinceramente. Lo lasciassero tranquillo qualche giorno da lui che avrebbe fatto in modo di convincerlo a mettersi di buona volontà a studiare come intendevano i genitori. Avrebbero, a loro completa sicurezza, ricevuto dal vescovado conferma di quanto appreso attraverso il telefono. Telegrafassero se permettevano che il ragazzo rimanesse qualche giorno ospite di don Camillo.Il telegramma arrivò nel primo pomeriggio.«I tuoi genitori ti hanno concesso di restare con me un po’ di tempo» disse allora don Camillo a Gigino. E Gigino finalmente sorrise. Don Camillo si mise il tabarro e uscì con Gigino.Arrivarono fino all’estremità del paese e si fermarono davanti all’officina di Peppone. Peppone stava smontando pezzo per pezzo un motore d’automobile e, quando vide don Camillo, buttò per terra la chiave inglese e si mise i pugni sui fianchi.«Qui non si parla di politica» disse cupo Peppone «qui si lavora.» «Bene» rispose don Camillo accendendo il suo mezzo toscano. Poi spinse avanti Gigino.«Che roba è?» domandò Peppone.«Questo è un borghese che è scappato di casa perché lo vogliono far studiare e invece lui vuol fare il meccanico. Ti interessa?» Peppone guardò il ragazzo esile ed elegante poi sghignazzò.«Tu vuoi fare il meccanico?»
«Sì, signore» rispose Gigino.«Qui non ci sono signori!» urlò Peppone. E gli occhi di Gigino si riempirono di lacrime.«Sì, capo» sussurrò Gigino. Peppone grugnì, si volse, raccolse la chiave inglese e riprese a lavorare accanto al motore. Gigino guardò don Camillo e don Camillo gli fece cenno di sì. Allora Gigino si tolse il cappottino e, sotto, aveva la sua brava tuta di tela blu. Peppone buttò via la chiave inglese e cominciò a lavorare con le chiavi fisse. Svitò quattro dadi del sedici poi gli serviva la chiave del quattordici. È se la trovò davanti al naso. Tremava, la chiave del quattordici, perché Gigino aveva una paura maledetta, ma era una chiave del quattordici e Peppone la agguantò con malgarbo. Don Camillo allora si avviò; quando fu sulla porta si rivolse a Gigino:«Giovanotto» disse «qui si lavora, non si fa della politica. Se senti quel disgraziato lì parlare di politica, lascia tutto e torna a casa».Peppone levò gli occhi e guardò cupo don Camillo.
*
Il padre arrivò dopo una decina di giorni e don Camillo lo ricevette con tutti i riguardi.«Ha messo la testa a posto?» s’informò il padre.«È un bravo ragazzo» rispose don Camillo.«Dov’è adesso?»«Sta studiando» rispose don Camillo. «Lo andiamo a trovare.»Quando giunsero all’officina di Peppone don Camillo si fermò e aperse la porta. Gigino stava lavorando alla morsa con la lima. Venne avanti Peppone e il padre di Gigino lo guardò a bocca aperta.«È il padre del ragazzo» spiegò don Camillo.«Ah!» disse Peppone con aria poco benevola squadrando diffidente il signore pieno di dignità.«Fa bene?» balbettò il signore.«È nato per fare il meccanico» rispose Peppone. «Fra un anno non saprò più cosa insegnargli e bisognerà mandarlo in città a lavorare nella meccanica di alta precisione.»Don Camillo e il padre di Gigino tornarono in silenzio alla canonica.«Cosa dico a mia moglie?» domandò sgomento il padre di Gigino. Don Camillo lo guardò.«Dica la verità: lei è contento di aver preso una laurea e di essere finito caporeparto in un ufficio statale?»
«Il mio sogno era di diventare specialista di motori a scoppio» sospirò il padre di Gigino. Don Camillo allargò le braccia:«Dica questo a sua moglie!».Il padre di Gigino sorrise tristemente. «Preghi per me, reverendo. Verrò tutte le settimane a trovare Gigino. Se occorre qualcosa mi scriva. Non a casa però: mi scriva in ufficio.»Poi si fece raccontare come era andata la faccenda della presentazione a Peppone e, quando seppe il particolare della chiave del quattordici che era proprio del quattordici e ci voleva quella del quattordici, gli brillavano gli occhi.«Mio padre» esclamò «era il primo tornitore della città. Buon sangue non mente!»






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