12/09/10

Cleuza Ramos e la teologia della felicità

Fonte: http://www.tempi.it/il-caso/009336-cleuza-ramos-e-la-teologia-della-felicit

15 giugno 2010, di Aldo Trento

Da sempre cattolica e attivista per i diritti dei senza terra, trovò pace solo quando scoprì che era il suo impegno ad aver bisogno di una “liberazione”. L’altro mondo possibile della donna che ha dato una casa a centomila brasiliani.

Cleuza Ramos è nata il 5 marzo 1954 nell’entroterra dello Stato di San Paolo, nella città di Espírito Santo do Pinhal. Viveva con i genitori e altri sei fratelli in una casa molto semplice, in campagna. Non avevano luce elettrica né acqua corrente, ma vivevano felici, vicino a un fiumiciattolo e lavorando la terra con la famiglia. Non avevano molti vestiti né scarpe, ma il cibo era abbondante: frutta, legumi e verdure. La vita era semplice, ma suo padre, un umile lavoratore, aveva un sogno: voleva che tutti i suoi figli studiassero. Aveva un fratello che viveva a San Paolo e decise di portare tutta la famiglia nella grande città, alla ricerca di un futuro migliore. Così, a dieci anni, Cleuza salì su un vecchio camion insieme con la sua famiglia. Fecero un viaggio di 300 chilometri fino alla capitale paulista. Tutti cantavano allegri, ma Cleuza piangeva, perché non voleva lasciare la sua terra.


Nella loro città, i Ramos erano una famiglia molto religiosa. La domenica facevano un bel pezzo di strada a piedi per non perdere la Messa e, in casa, recitavano abitualmente il Rosario tutti insieme. Ma arrivati a San Paolo non lo fecero più. Soltanto Cleuza continuò a cercare la Chiesa, e la sua battaglia cominciò proprio in quel periodo. «Andai a vivere in un quartiere poverissimo», racconta. «Non c’era nemmeno una chiesa vera e propria, era solo un capannone. A dieci anni mi unii alle “vecchie” della comunità per costruire la chiesa. Facevamo chermes, feijoadas, vendevamo vestiti, tutto per costruire la chiesa». Presto Cleuza si trovò sempre più coinvolta nell’attività della parrocchia di San Antonio. Ma la situazione della famiglia diventava sempre più difficile. Suo padre guadagnava pochissimo e avevano molta fame. Per questo Cleuza, che aveva frequentato la scuola fino alla quarta, cominciò giovanissima a lavorare come domestica. Di fronte a tutta questa povertà, iniziò a desiderare di trovare un uomo ricco, così sarebbe uscita da quella situazione. E a sedici anni, proprio davanti alla chiesa, incontrò il suo futuro primo marito. Juan, laureato in ingegneria, era un imprenditore nel campo dei compressori. La sua auto ebbe un guasto proprio in quella zona, e così i due si conobbero. Cleuza si sposò giovane e andò ad abitare in una casa di campagna, vicino a quella dove viveva con i genitori. Continuava ad aiutare in parrocchia, poi suo marito cominciò a proibirglielo e lei si sentì quasi prigioniera, ma non trascurò mai il lavoro, perché voleva servire. A proposito di quell’epoca, Cleuza dice: «Partecipavo alla catechesi, all’incontro con le coppie, a tutto quello che implicava un incontro, nella Chiesa. Nel 1980 lavoravo con chi viveva per strada e una volta alla settimana, la sera, distribuivamo brodo caldo. Al sabato andavo nella baraccopoli per fare lavoro di assistenza, distribuire cibi indispensabili e vestiti, aiutare a denunciare le nascite dei bambini, eccetera». Al marito non piaceva questo suo coinvolgimento con i poveri. Cleuza e Juan, nei primi anni di matrimonio, avevano avuto due figlie, Adriana e Amanda, e in casa non si smetteva di litigare. Suo marito la rimproverava di stare sempre fuori e con il passare del tempo i contrasti si aggravarono.

L’incontro con Zerbini


Nel 1986 la situazione familiare di Cleuza non era buona. Quell’anno il tema della Campagna di Fraternità (iniziativa di solidarietà e di evangelizzazione organizzata in tempo quaresimale dalla Conferenza episcopale brasiliana, ndr) era “Terra di Dio, terra di fratelli”. In parrocchia cercavano leader che aiutassero nella pastorale della terra. Cleuza non si candidò, ma dopo alcuni appelli rimasti senza risposta, il padre la convocò personalmente. E lei rispose prontamente di sì. Da allora Cleuza passò dal lavoro con le famiglie al lavoro con un movimento popolare. Divenne una leader del movimento dei lavoratori senza terra nella città di San Paolo. Le riunioni erano sempre più frequenti. Al marito non piacque vederla col microfono in mano, fare rivendicazioni di fronte alla municipalità, organizzare manifestazioni ovunque. Le liti si fecero sempre più frequenti, finché, nel 1989, Juan le chiese di scegliere: o il matrimonio o il movimento popolare. Cleuza scelse il movimento: «Quando mi sono sposata, lui era ricco e io povera, così non mi sono portata via niente. Volevo essere libera».

A questo punto, nel 1989, la storia di Cleuza Ramos si unisce con quella di Marcos Zerbini. I due si conoscevano già, dato che erano compagni di lotta nel movimento dei senza terra, e anche lui si era appena separato dalla moglie, la quale voleva che rinunciasse a tutto per una vita tranquilla. Cleuza e Marcos erano solo amici, ma di fronte alla situazione che stavano vivendo decisero di andare a stare insieme per costruire il movimento popolare. Così, in conflitto con le tradizioni che aveva seguito fino a quel momento, Cleuza andò a vivere con il quasi sconosciuto Marcos, in un’umile casa della baraccopoli.

In seguito compresero che un movimento fatto solo di rivendicazioni non dava nessun risultato. Allora diedero inizio all’esperienza dell’acquisto della terra per sistemare le famiglie. Così Cleuza racconta come nacque l’Associazione dei lavoratori senza terra (Atst): «Comprammo la prima terra in una grande area. Ogni lotto costava pochissimo, ma in questa terra servivano infrastrutture: acqua, luce… che però erano più care della terra stessa. Allora cominciammo a fare pressioni sul governo. E finalmente, dopo aver ricevuto da noi quarantamila lettere, il governatore Fleury ci fissò un’udienza. Poi lui stesso venne a visitare la nostra comunità: arrivando, si entusiasmò vedendo tante persone e fece installare acqua, luce e tutto il resto. Dopo quell’episodio abbiamo cominciato a fare meglio le lottizzazioni: compravamo il terreno, aspettavamo l’autorizzazione e costruivamo. A quel punto avevamo bisogno di scuole, e questa è stata un’altra battaglia, ma ci siamo riusciti. Così poco a poco il quartiere, pur essendo in periferia, è diventato proprio bello: aveva una scuola, acqua, luce, strade asfaltate. Ma vedevamo che mancava ancora qualcosa».

A un passo dal mollare tutto


Nel 2001, Cleuza arrivò a pensare di lasciar perdere tutto. Aveva ottenuto molto, ma sentiva sempre un vuoto dentro di sé. Gli unici ricordi gioiosi risalivano alla sua infanzia in campagna. Non era felice. «Piangevo sempre per quello che mancava e non ero soddisfatta di quello che già avevo. C’era una scuola, ma ne servivano dieci. Ed ero triste. Credevo che non ne valesse più la pena». Così rimuginava Cleuza, finché fece un certo incontro. Nell’agosto di quell’anno il dottor Alexandre Ferrari, medico pediatra, fece richiesta all’Università federale di San Paolo di essere mandato a lavorare in una delle aree dell’Atst. Cleuza racconta questo inizio: «Il dottor Ferrari voleva lavorare nella nostra scuola, perché lì avevamo molte adolescenti di 13-14 anni incinte. E i giovani avevano problemi di droga. Cominciò a fare un lavoro all’interno dell’istituto, insieme con i professori. E io non capivo molto bene quello che stava facendo, ma sapevo che era una persona diversa. Diceva che dovevo andare a conoscere i suoi amici. Parlava sempre di uno che si chiamava Giussani. Abbiamo iniziato così a diventare amici». Nel 2003, Alexandre invitò Cleuza a partecipare a un incontro latinoamericano della Compagnia delle Opere, a Rio de Janeiro. «In questo incontro ci si scambiavano esperienze: andava proprio bene per me. È lì che ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione. E non sarei più mancata a un appuntamento: tutto andava proprio bene per me. Nel movimento ho ritrovato la gioia che avevo perso, perché ho incontrato qualcosa di più. Ho veramente trovato la felicità, ho trovato la risposta alle mie domande». La grande novità in cui Cleuza e Marcos si sono imbattuti quando hanno incontrato il carisma di don Giussani, è stata il fatto di poter dare un nome e identificare la sete di infinito che li aveva sempre caratterizzati, perché, come dice Cleuza, «non basta avere solo la casa». Tutti i mesi all’Atst si organizzano riunioni per discutere di formazione, sicurezza, educazione civica. E la gente è accolta in una comunità in cui la maggior preoccupazione è la persona. Così Cleuza e Marcos sono sempre stimolati a cercare ulteriori benefici per l’Associazione, che oggi è riuscita a dotarsi di un posto di polizia, un centro per la salute e un ambulatorio medico a prezzi accessibili, oltre alle convenzioni con le università per ottenere borse di studio.

Quella conferenza di Carrón

Cleuza spiega che aver incontrato Alexandre e i nuovi amici di Cl è stato decisivo per affrontare la vita in un modo nuovo. E seguendo questo cammino, nel 2004, Cleuza ha incontrato don Julián Carrón, il successore di Giussani alla guida del movimento. Quando lo ha sentito per la prima volta si è trovata in totale sintonia. Alla fine del seminario è andata da lui per congratularsi: aveva parlato delle sue domande, di tutto ciò che lei sentiva. «Per tutta la vita sono stata cattolica, e in quel momento ho compreso l’incontro di Giovanni e Andrea con Cristo. Da allora la mia vita è completamente cambiata. Ho capito che i miei capelli sono contati, ho capito che tutto quello che era accaduto rientrava nei piani di Dio, a partire da quell’interesse quasi inconsapevole per il movimento dei senza terra. Oggi faccio le stesse cose che facevo prima, lo stesso movimento popolare, ma non mi aspetto risultati. Cl mi ha insegnato che sono padrona del mio “sì” e che però il risultato non dipende da me. Cristo sa fare molto bene il suo mestiere. Io lavoro e do tutta me stessa, ma il risultato non dipende da me. Oggi festeggio tutte le vittorie e ringrazio Dio perché manca ancora qualcosa: è questa mancanza ad alimentare la speranza».

Una vita totalmente cambiata


In questa amicizia con don Carrón, Cleuza si è sentita abbracciata come mai le era accaduto. E da questo abbraccio è nato il desiderio di sposarsi con Marcos. «Nessuno mi aveva mai detto che dovevo sposarmi, ma ho capito che non stavo vivendo la mia vita in modo serio. Il movimento mi ha fatto capire che non stavo insieme a Marcos per costruire un movimento popolare: ho capito che Cristo mi aveva dato Marcos per costruire il cammino della mia vita, non soltanto per essere il mio sostegno. Allora in un primo momento ci siamo sposati soltanto civilmente. In seguito, però, dato che io ero diventata vedova e lui aveva ottenuto l’annullamento del suo primo matrimonio, abbiamo avuto la grazia di sposarci in Italia, nella chiesa di San Francesco, ad Assisi».

Oggi Cleuza rende grazie ogni giorno per questa storia che ha cambiato totalmente la sua vita. E la sua prima preoccupazione è comunicare alle persone la bellezza dell’incontro che l’ha trasformata. Per questo, nelle riunioni dell’Associazione, si leggono brani delle conversazioni di Carrón e proposte di un cammino educativo per tutti gli associati. «Ciò che ha salvato la mia vita è stato l’incontro che ho fatto», dice Cleuza. «In questo incontro ho trovato persone che mi hanno aiutato a capire quello che Cristo vuole da me. E oggi ho la grazia di tornare bambina, di provare la gioia di quando vivevo in campagna. Oggi, a 56 anni, sono felice e libera. Ma non è una libertà ingenua, ignara di tutti i problemi. La mia sicurezza è che Cristo mi ama molto. Non mi imporrà mai una croce più pesante di quella che posso portare. Capisco molto bene che il Padre non ha risparmiato la croce a suo figlio, quindi non risparmierà a me i miei drammi. Ma sono sicura di essere amata, e questa certezza mi rende felice. È in compagnia dei miei amici, di Carrón, di Marcos, di tutta la gente dell’Associazione, che questa fiducia cresce sempre più. Oggi non ho dubbi: Cristo ha scritto questo progetto per me. E sono contenta perché mi rendo conto che non sono io ad avere la capacità di fare quello che faccio, ma è Cristo che me lo ha chiesto e io do il meglio di me, sapendo che non sono in grado di far niente. E mi stupisce vedere come Cristo usa me, il mio nulla, per costruire un’opera così grande, che coinvolge più di centomila persone».

Cleuza continua ad affrontare i problemi della quotidianità dell’Atst, organizzando riunioni con le autorità per chiedere scuole, giardini d’infanzia. Partecipa agli incontri nelle facoltà e assiste ogni giorno decine di persone che la cercano per condividere la loro vita, chiedere un consiglio. Cleuza conclude: «Quando esco di casa penso: Signore, qual è l’avventura che mi prepari per oggi? Così vengo qui contenta e la giornata passa in un lampo»

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