Ho alcuni amici deputati. E quando parlo con loro, sono sempre profondamente colpito dalla fatica che fanno all'interno dei cosiddetti "palazzi del potere". L'ultima volta che ho incontrato Raffaello, gli ho chiesto se aveva voglia di scrivere qualcosa sulla sua esperienza personale, in tal senso.
Davide Boldrin
Quando mi
è stato proposto di candidarmi
per il Parlamento nel 2008, ho scritto ai miei amici e agli imprenditori
dell'associazione di cui ero allora Presidente - la Compagnia delle Opere -
dicendo che sarei andato alla Camera dei Deputati a rappresentare quello
straordinario mondo delle micro, piccole e medie imprese, che sono realmente la
forza del nostro Paese e non solo dal punto di vista economico. E affermavo che
intendevo il verbo "rappresentare" non tanto e prima di tutto come
"rappresentanza", ma come "rappresentazione": ovvero fare
conoscere chi sono i piccoli imprenditori, cosa hanno nella testa, nel cuore,
nelle mani e anche nella pancia. Nel corso
di una campagna elettorale "strana", con le liste bloccate, ho scelto
di girare il territorio del mio collegio elettorale per incontrare soprattutto
gli imprenditori, per girare con loro nei capannoni, ascoltare i loro problemi,
condividere le loro preoccupazioni. Questo ho continuato a fare anche in questi
anni nei giorni della settimana in cui non sono impegnato a Roma. Per me
l'attività parlamentare costituiva un
nuovo lavoro, del quale conoscevo i termini generali, ma non sapevo cosa
volesse dire in concreto. Ho pensato allora di chiedere un consiglio a un
amico, che è stato parlamentare per diciassette
anni, molti dei quali passati al Governo come sottosegretario all'industria. Mi
disse più o meno queste cose. I
cittadini del Parlamento vedono solo in TV quello che succede in Aula. In realtà, il lavoro parlamentare vero viene svolto nelle commissioni,
anche se è un lavoro oscuro, che i più non vedono e di cui giornali e TV non parlano mai. Alla
mia richiesta di un esempio della sua esperienza che mi facesse comprendere
cosa significava questo, mi raccontò che quando era parlamentare
ci fu una crisi degli zuccherifici e che vennero salvati per un decimale di un
certo coefficiente (per capirci, uno 0,01%). Mi disse: "Vedi, da un
decimale a volte dipendono la sopravvivenza di tante imprese e il lavoro di
migliaia di famiglie: bisogna lavorare fino a questo livello di
dettaglio". Infine, mi disse di cercare di capire chi, nelle altre
commissioni (successivamente sarei stato eletto vicepresidente della
Commissione Attività produttive), lavorava sul
serio, perché molte volte i provvedimenti
sulle imprese passano da commissioni (bilancio, finanze, ambiente, lavoro,
politiche europee) che non sono la tua e quindi serve avere collegamenti con
esse. Ho seguito il suo consiglio alla lettera, e non me ne pento. Quando un
provvedimento arriva in Aula, infatti, è quasi concluso: è difficile modificarlo con gli emendamenti. Spesso si
utilizzano gli interventi in Aula non tanto per convincere della necessità o dell'opportunità di una certa modifica al
testo in esame, quanto – purtroppo - per fare politica
politicante, magari per conquistare un titolo sui giornali. Anche la carta
stampata e le televisioni, poi, non raccontano i provvedimenti, ma preferiscono
dedicarsi al teatrino della politica, quello che alimenta l'antipolitica e
convince i cittadini che i parlamentari non fanno nulla e che il Parlamento è inutile. In commissione accade l'inverso: si studiano i
provvedimenti, si discute, si cerca di convincere gli altri. È vero anche che in alcune commissioni è più alto lo scontro ideologico -
ad esempio nella commissione lavoro pubblico e privato -, ma nella mia
discutiamo senza pregiudizi. Non vuol dire che non vi siano posizioni
differenti o che non si parli appassionatamente, ma prevalgono altri fattori.
Dopo qualche settimana di lavoro insieme - le commissioni si riuniscono di
norma almeno tre volte alla settimana -, è subito chiaro se chi
interviene è competente e su che cosa, se
presentando un emendamento cerca di migliorare le condizioni per tutti o se
difende l'interesse (magari legittimo) di qualcuno. E questo indipendentemente
dai partiti di appartenenza. Nella mia commissione non abbiamo mai bocciato un
emendamento dell'opposizione che fosse giusto o utile. Tante volte abbiamo
riscritto in diretta e insieme i testi. Un simile atteggiamento di lavoro e di
apertura ha spesso permesso in questi anni di fare fronte comune per portare il
Governo a cambiare parere. In questi giorni sono andato all'inaugurazione di un
nuovo stabilimento di un'impresa multinazionale che aveva deciso di fare una
linea di prodotti in Italia, ma che stava subendo un’ingiustizia evidente a causa di una norma poco chiara.
L'azienda mi aveva detto che se non fosse stato risolto il problema sarebbero
andati a produrre altrove, licenziando i dipendenti diretti e mettendo in
difficoltà le numerose imprese
dell'indotto. Nel recente Decreto Sviluppo ho fatto cancellare, con un
emendamento in commissione, una norma sbagliata che impediva certe produzioni
in Italia regalando di fatto circa 150 milioni di fatturato a imprese tedesche,
francesi e inglesi e che ci avrebbe fatto perdere oltre 250 posti di lavoro: ci
stavo lavorando da quando sono in Parlamento. Potrei raccontare tantissimi
fatti come questo.
Mi limito
a dare conto di una legge, la 180/2011, lo Statuto delle imprese, che ho
proposto e che è stata approvata all'unanimità (nessun contrario e nessun astenuto). Abbiamo lavorato in
commissione per molti mesi, abbiamo discusso parola per parola, abbiamo
"convinto" il Ministero dell'Economia che la stava bloccando.
L'abbiamo approvata definitivamente in Aula il 3 novembre 2011. In quei giorni
il clima era rovente (Berlusconi si sarebbe dimesso pochi giorni dopo) e
l'opposizione aveva deciso di fare ostruzionismo su tutto. I miei colleghi di
commissione dell'opposizione hanno chiesto ai loro capigruppo di non fare
ostruzionismo sullo Statuto, dicendo che un provvedimento utile per le imprese
valeva di più dell'ostruzionismo politico.
E così è stato approvato. I giornali ne hanno parlato pochissimo.
Quelli che lo hanno fatto ne hanno parlato nelle pagine dell'economia, non in
quelle della politica (come se la politica non fosse quella che tenta di
risolvere i problemi delle famiglie e delle imprese, ma quella che
"urla"). Alcuni mi hanno detto: "Voi andate d'accordo, non fate
notizia".
È vero, fare il lavoro
parlamentare può non fare notizia, ma è il lavoro politico che serve di più. Fare il lavoro parlamentare è un po' fare "una vita da mediano", non si vince
"il pallone d'oro", ma è quello che serve di più a non prendere gol e, se possibile, a costruire il gioco
d'attacco. Se la politica ha come fine il bene comune e non altro, per chi sta
in Parlamento è il ruolo più affascinante. Anche perché
non è possibile farlo sul serio se
non si calpestano le strade, se non si ascolta e, ultimamente, se non si vuole
bene alle persone.
Raffaello Vignali

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