Il Rapporto Chilcot ha messo in luce l’assurdità del conflitto per abbattere Saddam Hussein che ha trasformato il Paese in una sentina di terroristi. Il Papa ormai vecchio e malato tentò di tutto per fermarla. Invano.
Di Andrea Tornielli - 08/07/2016
Nel
gennaio 2003, durante una colazione di lavoro con alcuni vaticanisti
presso la nunziatura in Italia, l’allora Segretario di Stato Angelo
Sodano decise di rispondere ad alcune domande sull’ormai imminente
guerra anglo-americana contro l’Iraq di Saddam Hussein. «Lo
diciamo ai nostri amici americani: vi conviene irritare un miliardo
di musulmani e rischiare di avere per decenni l’ostilità del mondo
islamico?». Parole sensate, di un diplomatico che sapeva guardare
non tanto alla capacità di ottenere una rapida vittoria militare,
quanto piuttosto al futuro di quel Paese. Con la diplomazia
della Santa Sede e il suo personale carisma, l’anziano e malato
Giovanni Paolo II aveva cercato di dissuadere da questa «avventura
senza ritorno», che si è purtroppo rivelata davvero tale.
Papa
Wojtyla aveva incontrato molti leader e capi di governo. Aveva
inviato il cardinale Roger Etchegaray a parlare con Saddam e il
cardinale Pio Laghi a parlare con George Bush jr. tentando
di evitare il conflitto. La logica della «guerra preventiva» aveva
prevalso contro tutto, sebbene le informazioni dell’intelligence
sulle armi di distruzione di massa si riveleranno false.
Tuttociò viene ora confermato dal Rapporto Chilcot, redatto
da una commissione del Governo inglese,
dal quale si evince che l’allora premier Tony Blair, come
Bush, volle
fare quella guerra a tutti i costi, ignorando le possibilità
alternative. Quelle possibilità sulle quali insisteva con
particolare forza proprio la diplomazia pontificia, convinta a
ragione che non tutte le vie fossero state percorse. La
guerra, si sa, va vinta prima con la propaganda. E di propaganda si
trattò, con le menzogne sulle armi di distruzione di massa e i
terribili agenti chimici che non vennero mai trovati. Vennero
ignorati gli avvertimenti sulle conseguenze che la guerra avrebbe
potuto avere, non ultimo proprio quella di far sprofondare il Paese
nel caos lasciandolo in preda del terrorismo islamista. Centinaia di
migliaia di civili vennero uccisi da bombe poco intelligenti, un
conflitto le cui conseguenze tutto il Medio Oriente e il mondo paga
ancora oggi.
Giovanni
Paolo II non aveva la forza politica per far prevalere il buon senso.
L’unica possibilità era quella di mobilitare l’opinione pubblica
proponendo gesti di pace alla portata di ogni persona, come il
digiuno e la preghiera. E quando ormai la guerra apparve
irreversibile, Wojtyla aveva annunciato per il 5 marzo una giornata
di preghiera e di digiuno per la pace in Medio Oriente, un invito
raccolto dall’intera opinione pubblica mondiale.
Domenica
16 marzo, affacciandosi per l’Angelus, Giovanni Paolo II aveva
detto: «Di fronte alle tremende conseguenze che un’operazione
militare internazionale avrebbe per le popolazioni dell’Iraq e per
l’equilibrio dell’intera regione del Medio Oriente, già tanto
provata, nonché per gli estremismi che potrebbero derivarne, dico a
tutti: c’è ancora tempo per negoziare; c’è ancora tempo
per la pace; non è mai troppo tardi per comprendersi e per
continuare a trattare». Wojtyla aveva lanciato due
moniti alle parti in causa: «I responsabili politici di Baghdad
hanno l’urgente dovere di collaborare pienamente con la comunità
internazionale, per eliminare ogni motivo d’intervento armato. A
loro è rivolto il mio pressante appello: le sorti dei loro
concittadini abbiano sempre la priorità!». Mentre agli Stati Uniti,
all’Inghilterra ed alla Spagna aveva ricordato, senza nominarli
espressamente, «che l’uso della forza rappresenta l’ultimo
ricorso, dopo aver esaurito ogni altra soluzione pacifica, secondo i
ben noti principi della stessa Carta dell’ONU».
Poi
l’anziano Papa aveva improvvisato, aggiungendo alcune accorate
parole: «Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la
seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a
tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto
quest’esperienza: “Mai più la guerra!”, come disse
Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite. Dobbiamo
fare tutto il possibile! Sappiamo bene che non è possibile la pace
ad ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa
responsabilità. E quindi preghiera e penitenza!».
Bisognava
ascoltare di più la voce di quel vecchio testimone degli orrori del
Novecento nella sua martoriata Polonia, invece di fare una guerra
sulla base di menzogne, senza la copertura dell’Onu e senza pensare
al dopoguerra.Bisognava ascoltare di più la voce dei cristiani
dell’Iraq, sbeffeggiati e bollati come «pacifisti» al soldo di
Saddam anche da alcuni media cattolici sempre pronti a indossare
l’elmetto. «Quando riusciamo a far sentire la nostra voce» diceva
il vescovo irakeno Shlemon Warduni, «cerchiamo di far capire che in
Occidente si sa poco dell’Iraq e delle sue dinamiche. Intervenire
sulla base di conoscenze così scarse, o addirittura sulla base di
convinzioni errate, può portare a un colossale disastro. L’embargo
ha già fatto danni enormi, i giovani migliori, quelli in gamba e
preparati, se ne sono andati, e il resto della popolazione è
impoverito. Si parla tanto delle armi, è giusto, ma perché sono
pericolose solo quelle dell’Iraq?». In un libro-intervista
intitolato «Dio non vuole la guerra in Iraq» Warduni ricordava:
«Appena proviamo a dire che la guerra non è la soluzione, subito ci
gridano contro: ecco, quelli stanno con Saddam, sono suoi complici».
Non
erano «complici», erano soltanto realisti, per nulla ammaliati
dalle sirene interessate sulla «democrazia da esportare». Avevano
capito a che cosa si sarebbe andati incontro destabilizzando l’intera
regione e corroborando il fondamentalismo e il terrorismo, come
puntualmente accaduto. E a noi non fanno ormai più effetto
le autobomba quasi quotidiane, che continuano a mietere vittime
innocenti meritando poche righe in cronaca, tredici anni dopo quella
guerra-lampo che aveva «liberato» il Paese dall’odioso dittatore
Saddam.
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