23/11/10

E i Cattolici si integrano(?) al CAIRO...

Data l'aria brutta che tira a Novi di Modena, ho pensato di riportare sempre una cosa della robaccia che leggo....
Davide Boldrin


Tracce N.10, Novembre 2010


COPERTINA - IL MEETING DEL CAIRO

«Avete illuminato l’Egitto»

Davide Perillo

Gli abbracci tra gli ospiti, i volontari, i canti a fine serata. E gli incontri, i concerti, le mostre... Il Meeting, insomma. Ma sotto le Piramidi. Il 28 e 29 ottobre, un avvenimento ha messo in dialogo professori musulmani e futuri cardinali, giuristi ebrei e decine di studenti. Con un filo rosso: la domanda di senso. E la bellezza



Sono in tre, vestite all’occidentale ma con il velo sulla testa. Una accanto all’altra, qualche poltrona più in là della tua. Avranno sì e no vent’anni, come tanti qui in sala. Una prende appunti, le altre due no. Ma quando Marco Bersanelli, l’astrofisico dell’Università di Milano che ha parlato della Via Lattea, cita Leopardi e il suo Pastore errante, accade tutto in un istante. Due mani che si infilano nelle borse, a rovistare in cerca di carta e penna. Ora scrivono tutte e tre, in fretta. Con le facce sorprese e spalancate di chi non vuole perdersi nulla della novità che ha davanti. Le guardi, e la domanda che ti gira in testa da ventiquattr’ore, da quando hai incrociato i sorrisi e l’accoglienza dei volontari in polo blu che ti aspettavano in aeroporto come se il tuo essere lì fosse un regalo per loro, viene a galla con tutta la sua potenza. Che cosa sta succedendo? E come è possibile, qui?

Qui è il Meeting del Cairo, Egitto. Tema: «La bellezza, spazio del dialogo». Avevamo già raccontato la storia. L’idea, spuntata in una serata tra don Ambrogio Pisoni, responsabile di Cl per il Medio Oriente, Wael Farouq, docente all’Università americana e presenza fissa del Meeting di Rimini, e un gruppo di suoi amici colpiti come lui dalla kermesse riminese. E lo sviluppo, perché man mano quello che sembrava un incontro per addetti ai lavori stava diventando un gesto imponente: gli inviti, i volontari, le sale più grandi... Ne avevamo parlato, insomma. E un po’ ce lo immaginavamo. Ma quello che si vede in questi due giorni di fine ottobre è fatto apposta per sorprendere, per sbaragliare le previsioni. Di solito, cose così le chiamano “eventi”, con un’enfasi che quasi mai corrisponde alla realtà. Qui no. È davvero un avvenimento. Qualcosa che vale la pena seguire fino in fondo. Facendo i conti con tutto, ma senza la pretesa di aver capito tutto. E senza cambiare strada, perché in quel percorso c’è qualcosa di misterioso. Da riconoscere e a cui, in qualche modo, obbedire. Semplicemente.

Lo aveva detto anche Farouq, accogliendo i primi amici sbarcati da Rimini un po’ ospiti, un po’ supporter del “fratello minore” egiziano: «Che cosa mi aspetto? Non so quali saranno i frutti, ma sono curioso di vedere cosa succede qui». Curioso lui, e gli altri del comitato organizzatore, che ha lavorato per settimane in uno scantinato («ma all’inizio le riunioni le facevamo intorno a una macchina») allargandosi per passaparola: il giudice che imbusta gli inviti, il manager che smista le telefonate, il procuratore legale che rispolvera il suo passato giovanile da guida turistica... E amici, parenti, amici degli amici. Alla fine i volontari saranno più di duecento. Coordinati da Wael e gli altri “magnifici tre”, come li chiameranno tutti a fine Meeting: Hosam Mikawi, giudice (quello che a Rimini, un anno fa aveva detto: «Qui sono rinato»), Abdel Heneish, imprenditore, e Tahani al-Jibaly, sua moglie, vicepresidente della Corte costituzionale e neopresidentessa della manifestazione egiziana.



Stucchi e drappi. È suo l’intervento principe della prima serata, nell’Aula Magna dell’Università del Cairo. Sembra un teatro. Stucchi, drappi, duemila poltrone. Un secolo e rotti di storia e un passato recente altrettanto importante: da qui Barack Obama, a giugno 2009, ha lanciato il suo appello al dialogo con l’islam. E qui vedi Farouq fare gli onori di casa, la al-Jibaly parlare di «una promessa che si compie» e di «Allah che è bellezza», Emilia Guarnieri raccontare il Meeting e l’amicizia con gli egiziani. Ed è sullo schermo accanto al logo nuovo, che accorpa la colomba riminese e le Piramidi, che vedi scorrere a sorpresa, in un documentario, i volti che hanno fatto trentuno anni della tua storia: don Giussani e Giovanni Paolo II, Madre Teresa e Ionesco, Rose e i carcerati di Padova... Il Meeting, insomma.

La cronaca più dettagliata degli interventi la trovate su Tracce.it. Ma vale la pena raccontare la platea. Dove spunta Joseph Weiler, il grande giurista americano (ebreo) accanto a un drappello di ministri egiziani. Dove Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei copti cattolici e prossimo cardinale (il Concistoro sarà il 20 novembre), all’intervento della Guarnieri si gira verso Pisoni e fa: «Si vede che è commossa». E dove imprenditori e giornalisti, tonache e telecamere si mescolano a gente comune, semplice. Un migliaio di persone, forse più. Accolte da drappelli di ragazzi in polo blu.

Sono i volontari, appunto. Uno spettacolo nello spettacolo. Una trentina di ragazzi italiani, quasi tutti universitari (molti studiano arabo, altri sono arrivati per dare una mano), il resto egiziani. Giovani, come Mary e Sarah, che ti hanno atteso in aeroporto (la prima è l’unica ciellina del Cairo, l’altra è musulmana). O più avanti negli anni come Hariri, che lavora in tribunale, è cugino di Hosam e ti fa da cicerone mentre attraversi il caos del Cairo in pulmino. C’è una familiarità che non ti spieghi, con loro e tra di loro. Inaspettata, perché a prima vista tutto allontanerebbe: lingua, cultura, abitudini. Eppure c’è. Genera facce da Meeting, simili a quelle che hai visto a Rimini per anni. E scene da Meeting. Gli abbracci. I sorrisi. Le cantate di gruppo a fine serata. Più tutto quello che ti racconteranno dopo, dalla cena al consolato italiano agli scambi di email.

«No, non si è mai vista una cosa del genere», conferma Farouq: «Qui il volontariato si fa, ma solo per motivi religiosi. Non per eventi come questo». E invece ti trovi in macchina con una coppia di autisti come Waleed, 28 anni, impiegato in un’agenzia di assicurazioni, e Serim, il suo capufficio, che di anni ne ha 32 e ha una moglie «con un bambino in pancia da cinque mesi», anche lei volontaria. Ne valeva la pena? «Certo. Siamo interessati a capire cosa pensate voi. E poi un evento così è l’occasione per far vedere che l’Egitto non è in ritardo. Ci siamo. E siamo capaci di fare cose belle». Ma basta scavare un po’ per arrivare alla scoperta vera. «Il lavoro di solito si valuta in base ai soldi. Be’, quello che vediamo lavorando qui è più importante dei soldi. Questa è la bellezza». Ma perché il Meeting è bello? «Ne abbiamo parlato tra noi», risponde Waleed: «Incontrandovi abbiamo imparato molto. La serietà nel lavoro. La puntualità. L’ordine». Te lo ripetono in tanti, dei volontari. «Ma tra loro si dicono anche quello che io dico a me stessa», spiega Martina, che l’arabo lo parla bene ed è stata tra i factotum italiani della manifestazione: «Dove altro si può parlare di verità e bellezza come succede qui?». Lì capisci meglio la frase che ti ha tradotto al volo, poco fa: «Sharraftu Masr», qualcosa tipo «avete onorato l’Egitto, l’avete illuminato con la vostra presenza». È un saluto tradizionale, per carità: non c’è da montarsi la testa. «Però ce lo ripetono spesso».

Seconda giornata. All’Opera House, stavolta. Nell’isola di Zamalek. È il cuore del Meeting cairota. Quattro incontri (sul “gemello” riminese, con Emilia Guarnieri e Tarek Farag, volontario all’ultima edizione; sulla Via Lattea, con Bersanelli; sul cuore e il desiderio di grandi cose, con Jean François Thiry e Saeed al Wakeel, della Cairo University; e sul tema del Meeting, con l’urbanista Samir Gharib e Pisoni), un filo rosso che don Ambrogio riprende con chiarezza («siamo qui perché siamo uomini feriti, commossi da una bellezza. Una strana bellezza che non lascia tranquilli, un ordine cercato e riconosciuto, una passione per il tutto e per il particolare, un’apertura senza confini e pregiudizi...»). E, ancora, tanti fatti imprevedibili.



Cintura di sicurezza. Sul palco a tradurre, per esempio, c’è Abdel Fattah Hasan. L’hai conosciuto la sera prima. Italiano fluente. Ti ha raccontato dei suoi trascorsi romani, di quando, da imam vicario della moschea ai Parioli, fece la prima predica dopo l’11 settembre citando il Corano («chi uccide un solo uomo, uccide tutta l’umanità»), della passione per Foscolo e Cavalcanti, della carriera politica (è deputato indipendente, nel Parlamento uscente). Scoprirai dopo che è vicino ai Fratelli Musulmani, l’organizzazione islamista. Ma intanto è lì, a tradurre i salmi citati da Bersanelli e Pisoni che parla di don Giussani e della Bellezza che «si è fatta carne e ci ha posto questa domanda: “Che cosa state cercando?”». «Incontri così sono una cintura di sicurezza contro il rancore che assedia il mondo», dice Hasan. Parole simili a quelle di padre Claudio, comboniano che è stato qui dodici anni, prima di tornare a Roma per fare l’economo dell’istituto, ma è tornato al Cairo apposta per il Meeting: «Come per incantesimo, cadono barriere che sembravano impossibili da abbattere». O da suor Rachele, brianzola di Biassono trapiantata in Egitto dal 1965. Una che le umiliazioni e le fatiche dei cristiani in queste zone le conosce bene. «Se parti dalle religioni non arrivi da nessuna parte», dice, sorridendo: «Ma se parti dagli uomini, sì».



Una domanda stampata. Ecco, l’impressione netta è questa. È come se l’idea stessa del “dialogo tra religioni” fosse spazzata via, per lasciare spazio alla realtà: uomini che dialogano davvero proprio perché religiosi, cioè appassionati al cuore, alla domanda di significato. Alla bellezza. Come quel signore distinto che resterà senza nome e in una pausa intavola una discussione con la Guarnieri. L’inglese è improbabile, ma ci si capisce. «Ha parlato di certezze e lotta al relativismo. Mi spiega meglio?». Lei spiega. Lui annuisce. E se ne esce con una frase tipo: «Ho capito. Qualsiasi cosa che ostacola l’immaginazione dell’uomo è da combattere...». A modo suo, sembra don Giussani e la «categoria della possibilità», quella che tiene la ragione spalancata al Mistero. Altro tratto di evidenziatore su una frase sentita prima, da un amico egiziano: «Stiamo guardando le cose con i vostri stessi occhi».

Il concerto finale è l’apoteosi. Di ciò che accomuna e di ciò che distingue. Trio Schubert e musica classica, dentro le mura della Cittadella del Saladino. Tutti tesi ad ascoltare il bello (Brahms, Paganini, Dvorak), molti pronti a riconoscere che è solo parente dell’altra musica, quella suonata la sera prima dal gruppo Sama’a. Cori e polifonia orientali intrecciate con melodie “nostre”. Belle anche quelle, ma diverse. Senza quella nota di malinconia che riecheggia, per dire, nel secondo movimento del Trio di Schubert, presentato come «uno dei brani più amati da don Giussani». È lì che ti rendi conto di quanto quel nome sia stato citato di continuo, in questi giorni. Sopra e fuori dal palco. Negli interventi italiani e in quelli in arabo. Di quanto sia vivo, don Giussani. Presente. Più che mai.

Esci accompagnando con lo sguardo lo strano terzetto che rientrerà in albergo a piedi, e che in qualche modo è un simbolo (Andrea Simoncini, costituzionalista italiano e cattolico, e il musulmano Farouq accompagnano l’ebreo Weiler: è shabbat, e lui non usa la macchina), e spunta subito la domanda che leggerai dovunque la mattina dopo, mentre si viaggia verso l’aeroporto. Stampata sulle facce degli altri. O infilata tra le righe dell’email che Farouq spedirà a Marco Aluigi, responsabile degli incontri del Meeting, quello che anni fa era venuto a trovarlo qui al Cairo assieme a don Ambrogio ed era tornato a Rimini dicendo ai colleghi, semplicemente: «Siamo diventati amici!»: «Ci avete attaccato il virus dell’amore», scrive Wael: «Rivediamoci presto. Bisogna che i volontari facciano loro lo spirito del Meeting». Rivedersi, chiaro. E in fretta. Ma che cosa succederà adesso? Come andrà avanti quello che è iniziato qui? E l’amicizia tra quei ragazzi, la vita di Mary, il legame con i ciellini di Alessandria? Che impatto avrà sulla vita pubblica e sulla Chiesa questo Meeting?

Pensi. Immagini. Insegui con la mente i primi effetti visibili, come l’email di Ahmed Hady, astrofisico dell’Università del Cairo, che dice di «voler organizzare un incontro a Luxor, magari a marzo», o la poesia che Karim, uno dei volontari, fa avere a don Ambrogio (scherzosa, in rima, parla degli amici italiani che tifano Inter e se si parla di Champions dicono «yes we can», ma chiude dicendo: «Ho incontrato gente che mi ha fatto sentire come uno di loro senza dire una parola»). Sei già un passo più in là, insomma. E grazie a Dio ti accorgi in fretta che sei già con un piede fuori strada. Proseguirà come è iniziata. Basta guardare e seguire. «Hai presente il giochino della Settimana enigmistica?», scherza Aluigi, ma non troppo: «Unisci i puntini coi numeri e alla fine spunta il disegno». Qui i punti sono tanti, piazzati negli angoli più imprevisti della pagina. E il disegno è ancora un abbozzo. Ma la firma, quella sì, si legge bene. E non è nostra.

Nessun commento:

Posta un commento